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I Tornei di Poker con Jeremiah Smith: Flippare o non Flippare

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Nonostante ne comprendano l’eventuale inevitabilità, la maggior parte dei professionisti fanno del loro meglio per evitare i coinflip. In fondo al Day 2 del $1,000 WSOP “stimulus special” mi sono imbattuto in Steve Sung durante una pausa di 20 minuti. Il solito aspetto stoico di Steve era stato rimpiazzato da un’espressione di incredulità con gli occhi sbarrati. “Ho rilanciato, ho fatto reraise, e subito dopo mi sono ritrovato all-in con delle Q… Io odio flippare… davvero, lo odio proprio.”
A giudicare dall’aspetto del suo volto, ho supposto che Steve fosse stato eliminato. Dopo qualche anno di tornei, sapevo che avrei dovuto scegliere le mie prossime parole con cautela: “Quindi hai fallito, eh?”

Alla fine dei conti, l’aspetto di sorpresa non era il risultato di una penosa eliminazione in fondo ad un grosso torneo. Né era il risultato dell’adrenalina in circolo per aver vinto l’inevitabile “classica sfida” contro A-K. Al contrario, derivava semplicemente dal fatto che con meno di 30 persone rimaste si era ritrovato in una situazione di coinflip.

Secondo un calcolo matematico molto preciso in situazioni di questo genere, nella mia manciata di anni come giornalista nei tornei, ne sono stato testimone di circa 110 milioni di volte. Le ho viste tutte, da A-Q contro J-J a 10-6 contro 3-3.

Quindi, se sono inevitabili, ineluttabili e predestinati dagli Dei del Poker, perché i professionisti che competono per avere l’onore di diventare “player of the year” li detestano così amaramente? Una risposta molto secca potrebbe essere, semplicemente, per gli edges. Giocatori come Steve Sung sentono che i flip diminuiscono il loro edge ed incrementano la loro varianza. Essi giocano uno stile di poker dettato dalla posizione e dal controllo del piatto. Sebbene possa essere un cugino lontano del low-ball di Negreanu, non dipende tanto dall’ottenere le mani dopo il flop quanto dall’esperienza situazionale, sia pre- che post-flop. Questo va contro un puro approccio matematico dettato dal tentare i flip in base alla mano individuale o alla dinamica del piatto, più raramente che considerando il torneo nella sua interezza. Vale a dire, alcuni giocatori sentono che è sempre corretto tentare un coinflip se gli odds del piatto sono giusti.

In una conversazione avvenuta appena prima del main event delle WSOP 2008, il vincitore del braccialetto Bill Edler ha condiviso alcune dritte che avrei potuto usare qualche settimana prima nel primo evento preliminare da $1,500. Stavamo discutendo del concetto di chip value riferito ai tornei. Bill stava spiegando un’idea esposta in un libro sui tornei di poker quando ha dichiarato, “Le chips che perdo hanno molto più valore di quelle che vinco.”

Sfoggiando la Barbara Walters che è in me, ho continuato l’intervista con un profondissimo “Huh?”

Anche se la situazione che riportava Bill era ipotetica, io ero tra quelli che l’aveva testimoniata e vissuta molte volte. Con bui a 500/1,000 ed uno stack medio di 50,000, diciamo che sei chip leader con 100,000. Un giocatore con uno stack medio apre con 3,000 e tu rilanci con A-K per 10,000. L’altro giocatore va all in per un totale di 50,000. In una situazione ipotetica, il tuo avversario rivela che ha 9-9. Da un punto di vista prettamente matematico, è corretto prendere questo coinflip perché sei solo leggermente in svantaggio ed hai già investito 10,000.

Comunque, come spiega Bill (e come ha poi sottolineato un consiglio di Full Tilt Poker), aggiungere 50,000 al tuo stack non cambierebbe molto le dinamiche al tuo tavolo. Dall’altro lato, perdere 50,000 cambierebbe tutto. In un tavolo con stacks da 50,000, non c’è molta differenza tra 100,000 e 150,000. Ma c’è una enorme differenza tra 100,000 e 50,000; sei passato dall’essere il capo in quanto a chips, ad uno stack medio se perdi il flip. Perdere queste chips ti costerebbe un valore significativo mentre invece vincerle aggiunge davvero poco al tuo tavolo. Aggiungerai soltanto il 33% al tuo stack se vinci, ma perdere ti costerebbe il 50%.

Ho due occasioni nella mia esperienza personale che mi tornano alla mente quando penso a questo concetto. Qualche anno fa, in un torneo da $1,000 al Bellagio, avevo oltre un terzo delle chips totali in gioco quando è cominciato il tavolo finale. Con la mia abitudine di sperperare chips sono finito al quinto posto dopo aver provato a fare lo sceriffo del tavolo e a dare una lezione ai giocatori che si permettevano di fare dei reraise su di me, finendo per giocare il mio 3-3 contro A-9 e perdendo. Anche se non c’era garanzia che io vincessi il torneo, foldare quel 3-3 mi avrebbe fatto mantenere la leadership e mi avrebbe assicurato un piazzamento più alto.

Ho ripetuto questo errore in fondo al Day 1 del primo $1,500 preliminare alle WSOP 2008. Dopo aver trasformato il mio stack iniziale di 3,000 in ben 65,000 fino alla pausa cena, ho perso qualche chips con A-J contro Q-Q, poi ho gettato gran parte del mio stack con A-K, poi sono stato sconfitto con 9-9 contro A-J. Riflettendoci poi, ho realizzato che sono un buon giocatore di poker ma un terribile gambler. Se non ho accumulato queste chips flippando, perché avrei dovuto cominciare una volta che avevo lo stack più alto?

Ci sono altre spiegazioni, più complete, di questi concetti sui libri di poker. Comunque, per questo concetto teorico basilare, è bastata una conversazione con Bill Edler per spazzare un po’ di polvere dalle pile di equazioni e progetti sotto cui era seppellito. C’è un momento in ogni torneo in cui la tua sopravvivenza dipenderà da una decisione del tipo testa o croce, ma un giocatore di talento mantiene il proprio edge aspettando il momento e la situazione giusta.

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